La sopravvenuta inutilità del divieto di disporre accertamenti sanitari nei confronti del dipendente alla luce dell’inaspettata situazione pandemica

La sopravvenuta inutilità del divieto di disporre accertamenti sanitari nei confronti del dipendente alla luce dell’inaspettata situazione pandemica

Le straordinarie limitazioni imposte nel sistema del diritto del lavoro dall’imprevedibile esplosione della pandemia hanno inciso sensibilmente sulla maggior parte degli istituti giuslavoristici: dall’esteso ricorso agli ammortizzatori sociali, normalmente destinati ad offrire numerose misure di sostegno al reddito ai lavoratori che hanno perso il lavoro, ad una disciplina semplificata del lavoro a distanza (prima telelavoro, oggi “smart working”), fino ad arrivare al blocco dei licenziamenti per lungo periodo.

 

L’articolo 5 della L. 20/05/1970, n. 300, nella sistemazione statutaria, a  tutela della libertà e dignità del lavoratore opportunamente  prevede, tuttora, il divieto di indagini da parte del datore di lavoro sulla idoneità e infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente, con il riconoscimento della facoltà di far controllare l’idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico.

 

Occorre dunque chiedersi se il divieto di accertamenti sanitari all’art 5 St. Lav. sia compatibile con l’emergenza sanitaria in atto.

 

Si tratta invero di una situazione imprevista e presumibilmente imprevedibile all’epoca dell’approvazione della norma, che tuttavia rende indispensabile, nel contesto emergenziale, una interpretazione congiunta di tale norma con ulteriori disposizioni: da un lato con la previsione contenuta nel Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid 19 negli ambienti di lavoro, siglato il 14 marzo 2020, interamente recepito nel Dpcm 22 marzo 2020 e poi integrato il 24 aprile 2020, ove viene espressamente stabilito che “il personale, prima dell’accesso al luogo di lavoro, potrà essere sottoposto al controllo della temperatura corporea. Se tale temperatura risulterà superiore ai 37,5°C l’ingresso ai luoghi di lavoro non sarà consentito”; dall’altro con la previsione di cui all’art. 20 del dlgs. n. 81/2008, che configura un vero e proprio “dovere di collaborazione” dei lavoratori con il datore di lavoro nell’attuazione delle misure di sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro.

 

In particolare tale ultima norma prescrive espressamente che “ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”, stabilendo poi che tra gli obblighi previsti al c. 2, lett. i) dell’art. 20, rientra anche quello di “sottoporsi ai controlli sanitari previsti dal presente decreto legislativo o comunque disposti dal medico competente”.

 

Ora, è chiaro che né l’art. 5, l. 300/1970, né il dlgs. n. 81/2008 potevano prevedere il verificarsi di vicende eccezionali come quelle della pandemia mondiale e dell’emergenza sanitaria che ne è scaturita. Tuttavia, dal momento le disposizioni del Testo unico sulla Sicurezza nei luoghi di lavoro hanno lo scopo di estendere ai lavoratori la responsabilità di partecipare alla gestione della sicurezza all'interno del complesso produttivo per allargare il livello di coinvolgimento dei diversi attori a vario titolo presenti all’interno dei luoghi di lavoro, la disciplina della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro consente di realizzare una trasformazione del lavoratore da soggetto passivo degli obblighi di sicurezza datoriali a soggetto attivo che prende parte alla programmazione della gestione della sicurezza all’interno del contesto produttivo e che come tale deve collaborarvi adottando ogni necessaria diligenza.

 

Più specificamente, a norma dell'art. 20 del dlgs. n. 81/08, che riproduce quasi integralmente il contenuto delle disposizioni già contenute all’art. 5 del d. lgs. n. 626/94 integrandolo ed ampliandolo, i lavoratori devono osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti per garantire una completa protezione collettiva e individuale; utilizzare correttamente i macchinari, le apparecchiature, gli utensili, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto e le altre attrezzature di lavoro, nonché i dispositivi di sicurezza; utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione; segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei mezzi e dei dispositivi utilizzati nello svolgimento dell’attività lavorativa, nonché le altre eventuali condizioni di pericolo di cui vengano a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell'ambito delle loro competenze e possibilità, per eliminare o ridurre tali deficienze o pericoli, dandone notizia al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza; non rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo; non compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro competenza ovvero che possono compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori; sottoporsi ai controlli sanitari previsti nei loro confronti; contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento di tutti gli obblighi imposti dall’autorità competente o comunque necessari per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori durante il lavoro; altri doveri di protezione sono imposti anche al datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti.

 

Facciamo ora un’analisi dell’ambito di applicazione dell’art. 2087 c.c..

 

L’area oggettiva di applicabilità della responsabilità civile del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. è molto vasta, e può vantare una casistica sterminata. Darne conto in maniera esaustiva è compito sommamente difficile, forse impossibile, anche perché la materia continua a nutrirsi di una realtà in continua evoluzione, che richiede soluzioni spesso innovative. Tuttavia, possono essere tenuti presenti alcuni principi fondamentali di applicazione, che fino ad oggi hanno fatto da guida agli operatori ed agli interpreti che hanno dovuto analizzare ed attuare le implicazioni conseguenti all’obbligo generale di sicurezza, che grava sull’imprenditore e sul datore di lavoro.

 

Sotto il profilo formale l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di predisporre tutte le misure dettate dalla «particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica».

 

Il primo inciso si riferisce ai rischi ed alle nocività specifiche dell’attività lavorativa che viene svolta. L’esperienza è ciò che consente di prevedere e valutare i rischi in base ad eventi già verificati e pericoli valutati in precedenza. La tecnica impone di tenersi aggiornati sui sistemi di sicurezza messi a disposizione dal progresso scientifico (Persiani, Lepore).

 

L’imprenditore è quindi obbligato a porre in essere, oltre alle misure di sicurezza previste da norme di prevenzione, anche quelle dette «innominate », ossia quelle che, «ancorché non espressamente imposte dalla legge o da altra fonte equiparata, siano suggerite da conoscenze sperimentali o tecniche ovvero dagli standard di sicurezza normalmente osservati» (Cass. civ., sez. lav., 30 giugno 2016, n. 13465, in Repertorio: 2016, Lavoro [rapporto] ).

 

 L’obbligo di sicurezza imposto all’imprenditore dall’art. 2087 c.c. è finalizzato alla tutela della salute e dell’integrità psico-fisica del lavoratore (ma anche di altri soggetti, si veda infra), e non prescrive o vieta comportamenti tipici.

 

Talché tale obbligo non riguarda solamente i comportamenti del datore di lavoro che direttamente possono costituire un rischio per i lavoratori, bensì anche le condotte che indirettamente possono determinare un danno all’integrità dei lavoratori (Mimmo). In particolare, la giurisprudenza ha valutato con particolare rigore la funzione di vigilanza che il datore di lavoro deve dispiegare in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro. All’imprenditore è pertanto chiesto di vigilare affinché i dipendenti con compiti direttivi e comunque di responsabilità provvedano con solerzia a far rispettare le regole prevenzionistiche.

 

Sulla scorta delle previsioni del T.U. sulla sicurezza dei luoghi di lavoro (d.lgs. n. 81/2008) il dovere di vigilanza dell’imprenditore risulta ancora più esteso, dovendo essere esercitato anche nei confronti dei progettisti, dei fabbricanti, dei fornitori, degli installatori e del medico competente (Cass. pen., 20 settembre 2011, n. 34373, in Notiziario di giurisprudenza del lavoro, 2011, 598); ferma restando tuttavia l’esclusiva responsabilità di tali soggetti qualora la mancata attuazione dei predetti obblighi sia addebitabile unicamente agli stessi e non sia riscontrabile un difetto di vigilanza del datore di lavoro e dei dirigenti.

 

Il dovere di vigilanza si estende fino al controllo sul rispetto delle prescrizioni antinfortunistiche, sull’effettivo e corretto utilizzo dei dispositivi di sicurezza da parte di ogni singolo lavoratore, sicché le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso; ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente (Cass. civ., sez. lav., 17 aprile 2004, n. 7328). 

 

L’art. 279 del d.lgs. n. 81/2008, inserito nel Titolo X di tale decreto dedicato agli agenti biologici, dopo aver previsto al comma 1 che, ove l’esito della valutazione del rischio ne rilevi la necessità, i lavoratori esposti ad agenti biologici sono sottoposti alla sorveglianza sanitaria di cui all’art. 41, al comma 2, stabilisce che il «datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente; b) l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42». Alcuni vaccini possono essere imposti dal datore di lavoro per far fronte al rischio biologico ai sensi del titolo X del D.Lvo 81/08 che, come noto, è dedicato al rischio biologico, o, meglio “a tutte le attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad agenti biologici”.

 

La norma prevede un obbligo per il datore di lavoro, ma non per il lavoratore. Alcuni commentatori ritengono che quella parte della norma che stabilisce che “il vaccino è somministrato dal medico competente” configurerebbe un vero e proprio obbligo per il lavoratore di sottoporvisi. L’agente biologico presente nella lavorazione può essere non solo un rischio interno, ma anche proveniente dall’esterno verso l’interno, quale ad esempio il virus del Coronavirus.  

 

Che fare quando il lavoratore non accetta di sottoporsi a vaccino? L’articolo 42 del TUS prevede lo spostamento del lavoratore ad altre mansioni. Lo scopo della norma è quello di garantire che il dipendente “fragile”, ossia non protetto dal contatto con il microorganismo, possa ottenere protezione senza perdere il posto di lavoro. Chiaro come l’articolo 5 della L. 20/05/1970, n. 300, concernente il divieto di indagini da parte del datore di lavoro sulla idoneità e infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente non ha più senso alla luce degli obblighi di sicurezza presenti sul lavoro, gravanti sia in capo al datore sia anche in capo ai suoi dipendenti.

 

Se è indiscutibile che per imporre l’obbligo vaccinale alla generalità dei cittadini occorra una legge ad hoc, ci si chiede se, nei contesti lavorativi in cui già esistono disposizioni legislative volte a tutelare la salute e la sicurezza di chi lavora, queste ultime possano essere considerate anche già attuative della riserva di legge costituzionale, potendosi quindi fondare su di esse l’obbligo vaccinale.

 

Dott. Valerio Carlesimo

 

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