Sulla carta la riforma dell’Ordinamento Forense (il cui Regio Decreto originale risaliva al lontano 1933, prima della Repubblica) è stata costruita ad un tavolo al quale erano seduti da un lato il Ministero della Giustizia, dall’altro il CNF e l’OUA, organi di raccordo dei singoli ordini e delle associazioni più rappresentative.
Nonostante il formale accordo, mai riforma è stata così osteggiata dai suoi stessi creatori, sotto tutti i punti di vista; la riforma è ampia, e ciascuno di noi può trovare qualche motivo per protestare: la mediazione obbligatoria, l’iscrizione obbligatoria alla Cassa Forense, l’assicurazione obbligatoria, l’esame obbligatorio per diventare cassazionista etc (perdonatemi per la ripetizione dell’aggettivo).
La domanda che mi pongo è: qual è l’atteggiamento giusto (o semplicemente più sensato) del singolo professionista di fronte ad un cambiamento così radicale dell’ordinamento? Resistere a tutti i costi, lamentandosi contro il Ministero (“Piove governo ladro!”), e magari anche contro il CNF e l’OUA, per aver tradito le aspettative degli iscritti? Oppure cedere le armi, rassegnandosi alla situazione e aspettare di vedere cosa succede?
A mio parere c’è un atteggiamento più funzionale di “combattere o morire”, anche se richiede una certa elasticità mentale, ed è quella di ritenere la trasformazione della nostra professione un’opportunità, anziché un attacco personale.
La professione sta cambiando perché doveva cambiare, non è pensabile continuare con un ordinamento di ottanta anni orsono, non è pensabile continuare in una società dove il numero dei concorrenti è cresciuto negli ultimi anni esponenzialmente, in cui l’avvocatura costituisce quasi un refugium peccatorum dei laureati in giurisprudenza. Che senso ha lamentarsi della liberalizzazione della concorrenza, quando già il numero di 247.000 avvocati (ultimo censimento) costituisce di per sé una concorrenza spietata? La verità è che se la riforma avesse tardato di altri dieci anni le strade sarebbero state invase dagli avvocati come gli zombie in “Walking Dead”!
Ben venga quindi la visione dell’avvocato come imprenditore, e dello studio legale come un’impresa, ben vengano i corsi di formazione in marketing, qualità, economia d’impresa etc. L’avvocato tradizionale, di Carneluttiana memoria, non esiste più da tempo, e Carnelutti stesso si stupirebbe di vedere cosa è diventato il suo studio…
L’Avvocato deve diventare necessariamente anche imprenditore di sé stesso non perché costretto nel ruolo (quante volte avrete sentito dire con rammarico ”ormai siamo diventati imprenditori…” come se fosse un’offesa), ma come un’occasione di utilizzare al meglio il nostro bagaglio culturale, la nostra intelligenza e creatività.
Quando l’onda del cambiamento sta per travolgerti, la cosa migliore non è lasciarsi annegare, né sperare di stare a galla, l’atteggiamento giusto è cavalcare l’onda.
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